Il giorno 18 febbraio 2012, alle ore 16:00, presso il Palazzo del Genio in Cerreto Sannita, si è svolta la quarta lezione del VII Corso di “CittadinanzAttiva” dal titolo: “Senso comunitario e dialogo tra generazioni”. E’ intervenuto sul tema “Sviluppo e relazioni intergenerazionali”, il Prof. Paolo Ricci, Ordinario di economia delle Aziende e delle Amministrazioni Pubbliche dell’Università del Sannio.
Il Prof. Ricci apre l’incontro soffermandosi sul significato di sviluppo, crescita e progresso, tre termini che adoperiamo soprattutto in questi anni in maniera indistinta, ma che sono, invece, molto diversi tra loro. Attualmente, ciò che ci affanna è la crescita; in passato, invece, come si evince dagli Scritti Corsari di Pasolini, il rapporto tra crescita e progresso era fondamentale.
Un Paese può crescere, cioè può vivere delle ottime condizioni economiche, ma non progredire. Allo stesso tempo, un Paese può vivere un momento di sviluppo, ma non avere conseguenze favorevoli per le persone, gli individui, la comunità.
Sviluppo, crescita e progresso hanno in comune un aspetto non secondario: riguardano l’individuo e la comunità. In altri termini, quando parliamo di sviluppo tecnologico, di crescita economica e di progresso culturale, stiamo toccando tre concetti differenti, ma legati all’individuo, in quanto artefice dello sviluppo, della crescita, del progresso, insieme agli altri membri della comunità.
A questo punto, il Prof. Ricci, prendendo spunto dal titolo del VII Corso di CittadinanzAttiva: “Senso comunitario e dialogo tra generazioni”, afferma che il senso comune consiste nell’aver appreso il modo con il quale ognuno di noi intende la propria esistenza, in relazione anche agli altri individui.
Sviluppo, crescita e progresso, quindi, sono avvinti proprio per il rapporto tra l’individuo e la comunità, tra l’individuo e l’altro, nel rispetto di propri convincimenti, delle tante diversità.
Lo sviluppo assume diversi significati, che non sempre implicano una connotazione positiva. Esistono Paesi in forte sviluppo, ad esempio il Terzo Mondo, dove però sono presenti disuguaglianze, diritti negati, carenza di opportunità. Al riguardo, sorge spontaneo chiedersi: a quale sviluppo si fa riferimento? L’idea che abbiamo dello sviluppo è collegata non necessariamente ad un elemento positivo e non necessariamente ad un elemento non economico.
Quando parliamo di progresso, invece, riusciamo a cogliere qualche elemento un po’ distinto da quelli che cogliamo rispetto alla questione sviluppo. Un Paese che progredisce non è detto che sia un Paese che cresce economicamente. Non sempre crescita economica e progresso civile e culturale camminano insieme. Possiamo trovare economie che crescono poco, ma che progrediscono in ambito tecnologico, culturale, sociale.
Una delle crisi che ha interessato l’Occidente negli ultimi venti anni è caratterizzata dall’aver vissuto il senso comune e le relazioni con le altre generazioni, pensando soprattutto alla crescita economica, spesso misurata con il PIL, il RNL e tanti altri indicatori. Uno dei motivi della crisi finanziaria sta nel fatto che abbiamo avuto una dimensione quasi esclusivamente economica del modo in cui l’uomo si è relazionato con la comunità in cui era presente. Si è pensato, quindi, più alla crescita, più allo sviluppo in senso lato, ma soprattutto nella sua dimensione economica, di quanto fosse fondamentale ragionare in termini di progresso, cioè di capacità di una comunità, ma anche dei singoli individui, di vedere ridotte le disuguaglianze, di vedere allargato il sistema dei diritti, di compiere culturalmente e civilmente modelli di convivenza centrati sul bene comune.
In sintesi, la prima considerazione del Prof. Ricci è la seguente: sviluppo, crescita e progresso non sono la stessa cosa e ciò che distinguerebbe in maniera netta, quasi inequivocabile, lo sviluppo e la crescita dal progresso è la dimensione umana, l’uomo, l’attenzione che noi portiamo verso l’uomo. La crescita economica e lo sviluppo tout court hanno o possono avere un limite, quello di non mettere l’uomo nelle condizioni di avere una vita diversa o migliore di quella che aveva prima. Un Paese può avere un PIL che cresce, può avere uno sviluppo economico molto rapido (com’è accaduto per molte economie), ma non aver fatto progressi per quanto riguarda, ad esempio: il pieno sviluppo della democrazia e delle condizioni di affermazione dell’interesse generale e del bene comune; lo studio della storia nella formazione giovanile; l’importanza di relazionare con i propri studenti e con le loro famiglie, cioè in quelle poche, ma significative cose che appartengono all’uomo e all’individuo come fattore principale della vita di una comunità.
Come si può misurare il progresso di un Paese? Come si può misurare il progresso di una comunità? Attraverso il livello tecnologico raggiunto, ma anche in base ai diritti. Negli ultimi trent’anni, le disuguaglianze nei paesi occidentali non si sono ridotte, ma sono cresciute a fronte di un aumento significativo della crescita economica. Una crescita economica, quindi, non sempre importa progresso, accrescimento dei valori di una comunità, ma soprattutto centralità dell’uomo e dell’individuo.
Il progresso, a differenza della crescita intesa come crescita materiale ed economica, ha una condizione favorevole: crea meccanismi attraverso cui le condizioni per continuare a progredire ci sono e sono presenti.
Un Paese che non progredisce nei diritti, nelle disuguaglianze, nelle differenze, nel senso comune, rischia in tempi molto rapidi di perdere il senso comune stesso.
Pertanto, il senso comune si collega alla capacità di progredire con o senza l’economia, mettendo al centro del pensiero, della comunità, un sistema di valori che sia in grado di reggere.
Molto spesso il termine progresso lo si sovrappone ad un termine, secondo il Prof. Ricci, più significativo, che costituisce il tratto d’unione tra sviluppo, crescita, progresso e relazioni intergenerazionali: la sostenibilità.
Un Paese può crescere economicamente, avere un PIL significativo e non progredire, ma allo stesso tempo può minare o accrescere le condizioni attraverso cui le relazioni tra generazioni diventano sostenibili. Progredire, quindi, significa anche creare le condizioni di sostenibilità nei rapporti tra individui, che appartengono alla stessa comunità nel tempo.
La crisi che stiamo vivendo e che molti ritengono sia di tipo economico, in realtà secondo il Prof. Ricci e non solo, è una crisi politica, in quanto qualcosa è accaduto nel rapporto tra politica ed economia negli ultimi venti, trent’anni.
La politica, intesa come capacità di organizzare la comunità secondo valori, ha dominato l’economia fino ad un certo punto.
Cosa significa che la politica domina l’economia o che la politica ha dominato l’economia? Significa che il sistema dei valori che la politica costruisce, è prioritario rispetto alle scelte fatte dalle imprese, dal mercato, dalle Istituzioni economiche.
Si può parlare di relazioni intergenerazionali, si può parlare di condizioni di sostenibilità del rapporto tra generazioni, se la politica è in grado di fare una costruzione delle priorità (sistema valoriale), che tenga conto anche delle relazioni tra generazioni.
Molti dicono che la politica avrebbe perso il dominio sull’economia, favorendo processi di insostenibilità tra generazioni all’indomani della caduta del muro di Berlino (9 novembre 1989). In quel dato momento storico, le grandi teorie politiche che sostenevano il dominio della politica sull’economia si assicurano, si garantiscono, approdano, per fallimento o per compiacimento.
L’economia, il mercato, la necessità che le imprese hanno di decidere rapidamente i propri affari prevale sulle Istituzioni politiche, sui governi e sulle scelte in senso lato.
Si tratta di un fenomeno che non avviene per legge, è un processo lungo, complesso e articolato, che prende piede in uno scenario mondiale in fermento.
Da questo momento in poi, l’economia prende il sopravvento sulla politica. Che cosa significa? Non siamo governati? Si che siamo governati, afferma il Prof. Ricci. Allora, quando la politica ha ceduto il passo alle necessità, alle esigenze che l’economia nel tempo ha visto crescere?
A questo punto, il Prof. Ricci fa una breve digressione sulla differenza tra tecnico e politico, precisando che nel momento in cui un tecnico assume incarichi di governo, cioè prende decisioni in funzione di priorità che appartengono al suo sistema valoriale, condiviso da una comunità, diventa a tutti gli effetti un politico.
Tornando sul perché la politica ha perso il dominio sull’economia, il Prof. Ricci afferma che negli ultimi dieci anni si stanno tentando di affermare modelli di democrazie rappresentative presidenziali. Perché l’innamoramento verso queste forme? Per gli economisti, la democrazia rappresentativa presidenziale è più conveniente, in quanto permette di prendere decisioni più rapidamente, c’è meno interlocuzione; tutti elementi richiesti dal mercato e dall’economia.
Questo discorso istituzionale, costituzionale, vale anche per tante piccole scelte che la politica nel tempo ha rinunciato a prendere. Non sappiamo quando ciò è avvenuto e per quanto tempo è avvenuto, quanto sia forte questo moto di sovrapposizione, ma è un dato di fatto che la politica lentamente ha reso meno possibili decisioni meno afferenti all’economia.
Al riguardo, il Prof. Ricci menziona Jean Paul Fitoussi, il quale, in un suo libro, afferma che il migliore regime politico per il mercato capitalistico è la dittatura. La democrazia, infatti, affatica il mercato, perché impiega tempo, perché vuole dialogo, perché vuole senso comune, perché vuole sistema valoriale, perché vuole contraddittorio. Il mercato, invece, vuole decisioni rapide, favorevoli a renderlo sempre più libero.
Questo mercato, quest’economia può rendere possibile il tratto d’unione tra crescita, sviluppo, progresso e relazioni intergenerazionali? Può sempre garantire sostenibilità nelle relazioni? Che cosa ha prodotto questo passaggio?
Secondo le statistiche, questo passaggio ha prodotto disuguaglianze reddituali, la riduzione della centralità dell’uomo nel modello di costruzione del senso comune, la trasformazione delle Istituzioni, la riduzione in termini di opportunità, la desoggettivazione delle imprese (più soggetti che comandano difficili da individuare, gli interessi si sono moltiplicati).
Se questi sono gli effetti, c’è da preoccuparsi soprattutto nelle relazioni intergenerazionali. Quando ci siamo cominciati a preoccupare del problema intergenerazionale in Occidente? Per quale via è diventata una questione? In riferimento alla sostenibilità nelle relazioni, secondo il Prof. Ricci tra i problemi sarebbero annoverati: il lavoro, la pensione, in parte il debito pubblico, che è poi la causa di tutte le cause. In altri termini, la questione sarebbe trattata solo ed esclusivamente, e ancora una volta, in termini economici.
E’ crescita quella che non consente di sostenere le relazioni tra le generazioni? No.
Perché si deve osservare l’effetto e non la causa? Perché si deve parlare dell’effetto che si chiama debito pubblico, che si chiama welfare che cambia, che si chiama mercato del lavoro in gravi difficoltà?
Le cause dell’insostenibilità delle relazioni tra le generazioni sono tutte riconducibili, secondo il Prof. Ricci, all’assenza della centralità dell’uomo nel senso comune. Le relazioni tra generazioni non sono state poste al centro della politica, quindi, delle decisioni di chi è chiamato a governare, ad aiutare, a favorire il progresso di una comunità. Ci sono dei temi centrali nella relazione tra generazioni che sono molto trascurati, come ad esempio la formazione dei giovani (l’Italia è tra gli ultimi Paesi che investe nella formazione e nell’istruzione dei giovani); la sostenibilità ambientale, la sostenibilità finanziaria.
Naturalmente, i temi della sostenibilità ambientale hanno avuto anche essi un ruolo in termini di impatto sull’ambiente, di uno sviluppo senza regole o di uno sviluppo intensivo senza limiti.
Su questo argomento, si sono confrontate due grandi teorie: non si inquina o chi inquina paga. Al riguardo, il Prof. Ricci consiglia di dubitare sempre nei confronti di colori i quali consentono di fare qualsiasi cosa, pagando: non tutti i doveri sono monetizzabili e non tutti sono nelle condizioni di monetizzare. Un principio, infatti, che sta prendendo piede in materia di sostenibilità ambientale è il seguente: chi inquina paga, così la persona che ha commesso l’azione non lo farà più. In realtà, precisa il Prof. Ricci, non è così. E’ preferibile negare un comportamento, che consentirlo a pagamento, perché, consentendolo a pagamento, la prima rinuncia viene vista come principio, come valore, cioè quello di poterlo negoziare. In quest’ottica, acquista un’importanza fondamentale il rispetto delle risorse naturali, il rispetto del paesaggio, un utilizzo corretto dell’ambiente, un’economia che valorizza e non distrugge. Il primo passaggio nel rapporto generazionale non è solo quello della sostenibilità finanziaria, ma anche quello della sostenibilità ambientale, della sostenibilità dei rapporti tra individui,di quello che stiamo costruendo e che vogliamo lasciare a chi ci seguirà.
Il dialogo tra generazioni si sostiene, innanzitutto, ricreando le condizioni affinché esso sia vissuto in maniera piena, perché proprio la chiave economica ha creato il conflitto. L’economia non risolve i conflitti, è la politica, è la democrazia che fa questo. Pertanto, se il dominio dell’economia continua, avremo difficoltà nel ricercare soluzioni idonee, in quanto non saranno soluzioni partecipate. Come si (ri)creano queste condizioni? Come si crea sostenibilità tra generazioni? Rimettendo al centro l’individuo, investendo nella sua formazione e sviluppando il pensiero creativo, che si contrappone al pensiero omologato che la globalizzazione economica ha creato. Se la cultura diventerà elitaria, per l’uso della lingua inglese o per altre strane forme di omologazione culturale e scientifica, per i costi molto elevati della formazione altamente specializzata, per problemi di generazioni, questo comporterà una massificazione delle culture, un abbattimento del pensiero creativo, un’incapacità sostanziale di avere nuove facce di quel sistema. Bisogna migliorare il clima sociale, accrescere la fiducia e la speranza. La speranza deve diventare la moneta del mercato fatto dagli uomini e per gli uomini. Bisogna rivedere il ruolo delle Istituzioni, in quanto oggi è molto complesso relazionarsi con esse. Bisogna, infine, cooperare e migliorare: la cooperazione sociale è fondamentale. La competizione serve, ma lasciamola dove serve. La cooperazione crea coesione sociale ed è l’anticamera di una buona relazione tra generazioni. Se immaginiamo che ogni decisione è frutto di una contromossa competitiva, probabilmente spunteremmo un prezzo più alto, un po’ di profitto in più, ma avremmo perso sicuramente qualcosa, soprattutto nel medio e nel lungo termine. L’uomo è nato per cooperare, per collaborare, per condividere. Si può fare ciò attraverso l’attuale capitalismo occidentale? Finanziario e immateriale? Probabilmente no. Ma si può e si deve, precisa il Prof. Ricci. Dobbiamo immaginare nuovi modelli che garantiscono il rapporto tra gli individui, tra le generazioni.
Il Prof. Ricci conclude il suo intervento con la domanda: cosa succede se non c’è coesione sociale? Innanzitutto, aumenta la confusione, quella confusione “istituzionalizzata” tra fini e mezzi. Noi, spesso, nel nostro agire quotidiano, nel rapporto con i nostri genitori, con i nostri figli, con la comunità, confondiamo il fine, lo scopo ultimo con lo strumento. Senza coesione sociale, i rischi di omologazione crescono, perché non c’è confronto, non c’è contraddittorio, visto che tutti la pensano allo stesso modo. L’ultimo effetto dell’assenza della coesione sociale è dato dal fatto che le interdipendenze ci costringeranno e non ci realizzeranno. Essere costretti nella relazione significa rinunciare al proprio modo di essere, significa rinunciare a se stessi nella dimensione umana.
Agata Abbamondi
Patrizia Lombardi
Ada Mancinelli