CittadinanzAttiva 2009-2010. Incontro sul tema “Dignità della persona: profili sociali”. Relatore: Prof. Francesco Vespasiano

Il giorno 23 gennaio 2010, presso il Palazzo dei Congressi delle Terme di Telese,  si è tenuto l’incontro sul tema “Dignità della persona: profili sociali”, che rientra nel  Laboratorio di formazione sociale CittadinanzAttiva, un progetto ideato e realizzato dal Centro Studi Sociali Bachelet ONLUS della Diocesi di Cerreto S.- Telese- Sant’Agata dei Goti. E’ intervenuto il Prof. Francesco Vespasiano, Docente di Sociologia dell’Università del Sannio.

Apre l’incontro il Presidente del Centro Studi Sociali Bachelet ONLUS, Don Franco Piazza, il quale precisa che la dignità della persona per quanto tutelata da varie costituzioni e da vari ordinamenti, di fatto passa attraverso le persone. Se la coscienza delle persone non cresce nella sensibilità per la tutela della dignità umana, ci troviamo in seria emergenza umana, perché la dignità di ogni singolo uomo viene calpestata.

Il Prof. Vespasiano inizia il suo intervento specificando che cosa si intende per dignità della persona. Al riguardo, egli afferma che quando si è di fronte ad un termine generale, si rischia sempre di essere generici. Non si sa mai in prima battuta che cosa possa significare il termine dignità. Tuttavia, se si comincia a declinare questo termine nella concretezza delle relazioni, dei fatti, delle situazioni, si comincia ad avere difficoltà a delineare il concetto della dignità in modo uniforme. Per esempio, che cos’è una vita degna?, che cos’è la dignità di una vita?, che cosa significa essere degni di una persona, di una situazione? Quando si dice ad un’altra persona: non sei degno di me”, si dà un giudizio molto preciso di quella persona, cioè la si ritiene inferiore, la si ritiene una persona con caratteristiche, modi di fare inadatti alla nostra visione del mondo e della vita. Dignità, dunque, sebbene abbia una valenza antropologicamente facile da condividere: “ogni uomo ha dignità, tutti gli uomini hanno pari dignità”, nella concretezza delle relazioni  ognuno di noi dà più o meno dignità agli altri, alle situazioni e ai diversi momenti in cui si entra in relazione con gli altri.

Il Prof. Vespasiano sottolinea tre punti che declinano il concetto di dignità sotto l’aspetto sociologico. Esiste il tema della dignità e il tema del progetto di vita dignitoso. Al riguardo, riporta una citazione presa da un camallo, cioè da uno scaricatore di porto genovese, Amanzio Pezzolo, il quale afferma: “Volete sapere chi eravamo e chi siamo? Siamo un mondo di solidarietà, di passione, di fraternità, sappiamo cos’è la fatica, la precarietà, la flessibilità, il mestiere, sappiamo come spendere la vita dandole il senso.” Il primo punto che il Prof. Vespasiano vuole evidenziare è che la vita è degna, a prescindere da qualunque altra situazione, se è vissuta in relazione ad un senso e la persona ha dignità nel momento in cui  è in relazione ad altri. Viviamo in un mondo di solidarietà, di passione (quando facciamo bene il nostro lavoro), di fraternità (quando ci aiutiamo gli uni con gli altri). Anche in una vita fatta di fatica, precarietà e flessibilità, chi è in ottime relazioni con gli altri e chi riesce a dare un senso alla propria esistenza, può essere considerata una persona degna.

Nessuno di noi può attribuirsi da solo una condizione di dignità. Ognuno di noi ottiene la propria dignità nelle relazioni, che vengono considerate fondative della società. Noi siamo inevitabilmente in relazione con gli altri. Noi siamo inevitabilmente in relazione con persone che mai conosciamo e mai conosceremo. La società è un insieme di relazioni nelle quali noi non siamo né completamente liberi, né completamente schiavi. Ad esempio nell’innamoramento, noi siamo volontariamente in una relazione di reciprocità, in cui siamo liberi di quella relazione ma anche schiavi dell’amore che c’è in quella relazione. Come afferma Bess: quando decidiamo intenzionalmente di cedere all’altro una parte della nostra libertà, noi acquistiamo in dignità. Tutte  le volte che noi cediamo alla nostra libertà, non intenzionalmente, non consapevolmente, non possiamo vivere una relazione dignitosa.

Riprendendo la citazione di Pezzolo, il Prof. Vespasiano evidenzia come noi, spesso, viviamo nella nostra quotidianità relazioni di lavoro e altri tipi di relazioni, non liberamente, ma per necessità. Sempre facendo riferimento a Pezzolo, quando ci troviamo in una situazione necessaria a causa della fatica, della precarietà, della flessibilità, bisogna dare un senso, un valore a questa condizione, poiché il futuro è quello che costruiamo giorno per giorno.

Più sinteticamente, la dignità è relazionale, sia nelle relazioni affettive, che non sono di sudditanza, sia nelle relazioni lavorative, che invece spesso sono di sudditanza. Nella società, questa relazione è da un lato vincolata al volere e al bisogno degli altri, dall’altra parte è costruita. La parte costruita è quella che dà senso.

Costruire la propria vita dandole un senso significa non consumare la vita, ma costruire la vita in un modo diverso da come l’abbiamo trovata quando abbiamo cominciato a viverla. Ognuno di noi mentre vive consuma delle cose. Baumann afferma: “la condizione attuale degli uomini e delle donne in qualunque parte del mondo, soprattutto nel mondo capitalistico, è una condizione di consumatori. Consumiamo cose materiali, ma anche tempo e mentre consumiamo tempo, consumiamo una parte della nostra vita. Sempre Baumann afferma che mentre consumiamo la nostra vita, non stiamo costruendo nulla, stiamo semplicemente mettendo da parte qualcosa per i nostri figli. Perché lo facciamo, si chiede Baumann? Perché siamo chiamati continuamente a consumare. Noi consumiamo oggetti con la convinzione che questi oggetti ci diano un valore in più nella nostra vita, come se fossero un contatto (touch) con gli altri. Consumare di più, però, non significa costruire più relazioni.

A questo punto, il Prof. Vespasiano si sofferma sul consumo della vita. La vita è quella cosa che si vive, che passa mentre si sta facendo altro. La gran parte delle cose che noi facciamo, non riusciamo a spiegarcele, cioè non riusciamo a dargli un senso che dia dignità all’insieme della nostra vita. Gran parte del significato che diamo quando vogliamo spiegare che stiamo vivendo o abbiamo finora vissuto una vita dignitosa, fa riferimento a ciò che noi trascuriamo. Secondo Baumann, noi, molto spesso, non viviamo delle vite dignitose, perché non diamo più valore, non diamo più importanza a quelle poche cose che consideriamo indispensabili nella nostra vita. In una qualunque vita, la gran parte delle ore che noi trascorriamo quotidianamente è indirizzata verso cose che non ci interessano. Il consumare la nostra vita in faccende che non ci riguardano, che ci riguardano poco oppure in attività a cui non diamo il senso che dovrebbero avere, non ci consente di dare, come diceva Pezzolo, un senso alla nostra esistenza.

Come si può spendere una vita dandole un senso? Come si può trovare la dignità di vita?

Kierkegaard definisce l’angoscia come una condizione naturale dell’uomo, quando lavora per dare un senso alla propria vita. L’uomo che vive l’angoscia, acquista consapevolezza della propria realtà, fatta di azioni che per noi hanno senso, fatta di azioni necessarie che non vorremmo fare. Quando l’uomo attraversa consapevolmente questo periodo di riflessione, attraversa anche la sua angoscia. Qui e soltanto qui, può diventare un uomo che ha dignità. La dignità del camallo che svolge un lavoro umile, povero, durissimo, precario, non stimato nella società sta nel fatto che egli si assume la responsabilità del proprio compito, al punto da farlo sempre meglio, per poi tornare ad essere un oscuro lavoratore. La dignità di questo lavoro viene data dalla fratellanza, dalla solidarietà, dalla passione e dal senso che gli permette di costruire relazioni. L’angoscia del padre responsabile è che la dignità della vita dei propri figli non diventi niente di tutto quello che egli spera. I figli ai quali viene ripetuto dai propri genitori: “voi valete di meno”, sono dei figli angosciati, in quanto non hanno attraversato l’angoscia della situazione reale e non riescono a dare dignità ad una vita vissuta diversamente rispetto alle aspettative dei genitori. Il Prof. Vespasiano ricorda un film dal titolo “Seabiscuit”, il nome di un cavallo zoppo, che negli anni ’30 negli USA comincia a vincere tutto e diventa l’emblema del popolo americano, di coloro che speravano di potercela fare nonostante le difficoltà. In questo film, c’è una battuta dell’allevatore del cavallo, il quale mentre lo cura, dice “ non si butta via una vita solo perché ha qualche difetto.” La vita del cavallo trovava dignità nella testa del suo allevatore anche se era azzoppato e debole.

La dignità non è un concetto astratto, teorico, generale e meno che mai generico, ma è un concetto che si declina nella realtà sociale e relazionale. La dignità è talmente coniugata nella realtà che anche una vita difficile, dura può trovare dignità se riesce a costruire percorsi di senso. Il senso viene dato dalle relazioni che ciascuno riesce a costruire con gli altri, in una quotidianità fatta di fatica, precarietà e flessibilità. Il problema fondamentale è che per dare senso alla vita secondo queste prospettive, bisogna uscire assolutamente dalla nostra condizione di consumatore, perché se siamo dei consumatori sono gli altri che ci dicono cosa dobbiamo fare e come lo dobbiamo fare. Mentre ci affanniamo a consumare, perdiamo quel tempo necessario per costruire una vita di senso.

Questa situazione crea angoscia. Una situazione di angoscia è la condizione che un uomo degno deve attraversare e assumere su se stesso. Ci sono, tuttavia, delle possibilità di costruire una vita che abbia senso anche tenendo conto dei presupposti su menzionati, visto che viviamo in una società fatta di funzioni, adattamento, raggiungimento dello scopo, integrazione, latenza. In ogni società, c’è la necessità di trovare un adattamento alle condizioni di vita generali. Ognuno di noi, però, ha uno scopo da raggiungere e deve rispettare una serie di norme per comportarsi in modo adeguato e integrato con gli altri. Per latenza si intende la riproduzione sociale. Se noi non fossimo nati, non esisterebbe nessuna società; quando siamo nati, oltre al corredo genetico e cromosomico, abbiamo acquisito la necessità di comportarci e percepirci in un certo modo in base alla società di appartenenza. Ognuno di noi deve rispettare le norme per integrarsi con gli altri, deve sforzarsi di andare d’accordo con il raggiungimento dello scopo collettivo che la società propone, deve contribuire a costruire in modo equilibrato un apparato economico che permetta a tutti quanti gli altri di soddisfare il più alto livello di bisogni, di beni e di servizi per vivere meglio. Al centro di questi elementi vi è un insieme di valori, simboli e norme collettive (nucleo simbolico culturale). La situazione angosciosa si ha perché non abbiamo fatto nulla, da quando siamo nati, per costruire il nucleo simbolico culturale con cui tutti, indipendentemente dalle responsabilità, devono fare i conti.

Tutti quelli che decidono di non rispettare il contenuto del nucleo simbolico culturale, sono spesso disadattati. Tra il destino del disadattato e quello dell’adattato, la maggior parte di noi decide di vivere una condizione di adattato, quindi, vive perennemente nell’angoscia, perché fa delle cose che non hanno senso. Eppure noi non possiamo dare senso a tutto quello che facciamo, perché siamo costretti ad essere integrati e a rispettare la latenza, cioè le persone con cui abbiamo relazioni sociali.

Avviandosi a conclusione, il Prof. Vespasiano riporta degli estratti del libro dal titolo “Costruire la propria vita” di Ulrich Beck: “Costruire la propria vita, intesa come imperativo categorico nella civiltà occidentale, è una faccenda complessa, in particolare nell’attuale società del rischio”, cioè in una società in cui la gran parte delle cose che facciamo sono fuori dal nostro controllo e dalla nostra portata, ma possono piombarci addosso all’improvviso. “Gli individui agiscono, lottano, si spostano per fare della loro esistenza un’unica e singolare avventura condizionata solo dalle proprie decisioni.” Si tratta della situazione angosciosa di chi dice: la vita è mia e me la voglio costruire come dico io. Ma questa è una presunzione irrealizzabile. “Un’aspirazione che, se sancisce l’affrancamento dal passato, dalle società immobili, dal destino già tracciato, dalla tradizione, presuppone un futuro amico e prevedibile.” E’ prevedibile il futuro così com’è oggi in una società del rischio? Non lo è neanche nel momento in cui pensiamo di riuscirci all’interno delle relazioni d’amore. “Da questa diagnosi, si ricava che la socializzazione è ormai ancora possibile solo come auto-socializzazione. L’individualismo che procede dall’interno verso l’esterno ha soppiantato l’autorità paterna e quella materna o è subentrata al posto dei governanti, degli insegnanti, dei poliziotti e dei politici. Lo spazio interno è ancora succube in larga parte di istanze sociali, come il gruppo dei coetanei, la televisione, la pubblicità, ma non soggiace più alle autorità e agli scopi indicati dal funzionalismo classico. Tuttavia, per poter scorgere la morale sociale della propria vita dobbiamo chiarire due equivoci: il primo può essere definito come equivoco del mercato egoistico della propria vita, che si fonda sul presupposto che l’obiettivo della propria vita sia quello di promuovere l’interesse economico e di mercato dell’individuo. I singoli individui sono concepiti come massimizzatori di utilità. Il singolo non è più concepito entro lo stato nazionale, ma anche oltre. La propria vita è allo stesso tempo anche vita globale, connessa a molteplici, contraddittorie catene di interdipendenza, entro le quali si trova costretta ad agire. In una situazione del genere avere come principale riferimento il proprio interesse economico sarebbe non soltanto insensato, ma addirittura rischioso per la sopravvivenza dell’individuo. Il secondo equivoco può essere considerato come equivoco tradizionalistico della morale del noi. Partendo dal rifiuto di norme preesistenti di solidarietà, si giunge all’erronea conclusione che esistono un’amoralità e un’anti-moralità della vita propria. Il passaggio è puramente dogmatico perché si basa sull’assolutizzazione delle regole dominanti, trascurando l’assunto che la vita oltre che propria è anche e allo stesso tempo una vita etico-sociale, che mira pure a realizzare una convivenza con gli altri e a beneficio di altri, a volte a costo di notevoli sacrifici.”

Concludendo, il Prof. Vespasiano riprende la citazione di Pezzolo: siamo un mondo di solidarietà, di passione, di fraternità, sappiamo cos’è la fatica, la precarietà, la flessibilità e il mestiere, sappiamo come spendere la vita dandole un senso. In altre parole, se ciascuno di noi vuole dare dignità alla propria vita, all’interno di una prospettiva sociologica, deve solo pensarla in relazione con gli altri. Le relazioni sociali non sono tutte uguali, morali, antimorali, così come non possono essere principalmente economiche. Come afferma Baumann, non possiamo continuare a consumare una vita dandole dignità perché siamo dei grandi consumatori. Uscendo dalla metafora dell’uomo, donna – consumatore, dobbiamo provare a costruire relazioni che anziché essere destinate al consumo, devono essere destinate al consumo di una nuova società.

Agata Abbamondi

Patrizia Lombardi

Ada Mancinelli

Dignità della persona, profili sociali – Prof. Francesco Vespasiano

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