CittadinanzAttiva 2009-2010. Incontro sul tema “Dignità della persona: profili economici”. Relatore: Prof. Giuseppe Acocella

Il giorno 9 gennaio 2010, presso il Palazzo dei Congressi delle Terme di Telese,  si è tenuto l’incontro sul tema “Dignità della persona: profili economici”, che rientra nel  Laboratorio di formazione sociale CittadinanzAttiva, un progetto ideato e realizzato dal Centro Studi Sociali Bachelet ONLUS della Diocesi di Cerreto S.- Telese- Sant’Agata dei Goti. E’ intervenuto il Prof. Giuseppe Acocella, Vice Presidente del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL).

Il Prof. Acocella apre l’incontro, precisando che il tema della dignità della persona caratterizza la parte costituzionale dello Stato moderno, la fondazione della sovranità e delle relazioni fra Stato e cittadini negli Stati contemporanei segnati dall’esperienza costituzionale. Molto più difficilmente di quanto accada nel diritto, questo tema viene affrontato anche sul terreno economico.

L’affermazione del valore centrale della dignità può essere affidata a una prescrizione normativa, come quella contenuta nelle carte costituzionali, in base al principio della sua fonte. La fonte che afferma la dignità della persona, oltre la sua sede morale, è la sede giuridico – normativa, perché esiste una fonte precisa del diritto che è lo Stato. Lo Stato, da cui è nata la sovranità nazionale, è legittimato a tradurre le norme morali in norme percettive per la vita di una nazione. Meglio è che le norme giuridiche coincidano con quelle morali, ma in ogni caso ha valore significativo il fatto che vengano affermate in una legge. In economia, questo discorso è più complesso. Se l’economia è circoscritta all’ambito nazionale come accadeva quando la sovranità economica era nazionale, ci può essere una capacità di regolazione della collettività attraverso gli organi pubblici che stabilisca alcuni principi, ad esempio le leggi per la dignità e la salvaguardia della maternità per le lavoratrici madri. Nel diritto del lavoro, il principio della dignità è riuscito ad incidere anche sull’economia, preservando questo principio essenziale dell’esistenza umana, come ad esempio la generazione dei figli, da abusi e oppressioni sul terreno dell’economia, in cui si esercita l’attività lavorativa. Ciò è possibile perché coincidono la sovranità giuridica e la sovranità economica, perché la dimensione nazionale è la dimensiona tipica dello Stato moderno. Il problema nasce nell’età della globalizzazione, in cui la sovranità economica non è più rintracciabile nel contesto nazionale, ma è una sovranità economica che promana da grandi soggetti sovranazionali, circuiti economici che sfuggono alla tradizionale capacità regolativa della morale e del diritto e che sono indotti a seguire degli itinerari in quanto rispondono agli interessi di chi mette in atto l’azione economica. Nell’ambito di una sovranità economica nazionale, la stessa azione economica può essere regolata dalla medesima sovranità entro la quale l’azione economica si svolge, quando lo scenario di riferimento è globale non c’è più un’autorità giuridica in grado di dare le regole.

Quando si parla molto genericamente di globalizzazione non si tiene conto della possibilità di una crisi economica ciclica, come quella che ha interrotto il ciclo produttivo degli ultimi dieci anni, causando un aggravio nella capacità di occupazione e di consumo. Ci aspettiamo dei momenti di crisi, quando il  rapporto tra capacità produttiva e capacità di consumo non è stabile. Se questo è vero, la crisi che ha colpito le economie più esposte, ha portato alla necessità di stabilire delle regole. Le più grandi economie si sono rese conto che andavano incontro a crisi permanenti, non più strutturali, non più cicliche, in quanto le regole efficaci venivano date ai singoli Stati, di conseguenza risultavano essere limitate nella loro efficacia in relazione al fenomeno globale. Non è più applicabile il pensiero unico della globalizzazione, cioè il principio secondo cui l’economia dovesse essere lasciata libera di percorrere le strade più convenienti. Ad es. la strada della finanziarizzazione (la strada di spostare beni dalla produzione al campo finanziario) non ha prodotto beni duraturi perché ha aumentato la capacità nominale delle economie di produrre ricchezza (PIL). Tuttavia, questa crescita di ricchezza è spesso soltanto apparente, in quanto determinata dalle bolle finanziarie, cioè dal fatto che alcuni prodotti finanziari vengono diffusi in modo tale da mettere in movimento grandi masse di ricchezza, che non si traducono in beni effettivi, in capacità di consumo, in occupazione per i lavoratori, in servizi per le famiglie. La bolla finanziaria è un aspetto della ricchezza delle nazioni, di cui si è occupato il padre della scienza economica Adam Smith, ma è un aspetto della crescita economica globalizzata che non produce immediatamente una ricchezza ma che può creare un’esposizione tale che quando la bolla scoppia, i costi ricadono sui soggetti più deboli, su coloro che non hanno la capacità di modificare la propria posizione economica e sono dipendenti dall’andamento complessivo.

Questo fatto ha messo in evidenza che non è più possibile affidarsi all’illusione della crescita senza limiti. Noi abbiamo creduto nel II dopoguerra che l’economia fosse un volano capace sempre di autoalimentarsi, di crescere costantemente e invece abbiamo scoperto che non è più così. L’ossessione degli Stati di poter documentare ogni anno  una crescita del PIL si traduce spesso nell’affidarsi a prodotti finanziari che lasciano conseguenze disastrose e non generano benessere della nazione.

Da qualche anno si comincia a dire che misurare solo l’indice della ricchezza sotto il profilo quantitativo non spiega nulla, ci vogliono altri parametri (occupazione, sanità, ecc.).

Uno degli effetti del nuovo ciclo economico è stato negli ultimi anni quello di affermare che la scienza economica non è più quella di Adam Smith. La scienza economica ha ritenuto che non è più necessaria la sovranità economica nazionale in quanto coincidente con la sovranità giuridica nazionale, perché l’economia stabilisce da se stessa le regole normative complessive, che sono anche le regole morali. Al riguardo, il Prof. Acocella riporta un esempio di Paolo Grossi, oggi giudice costituzionale: una lettera di credito scambiata tra grandi compagnie mercantili del mondo con grandi società di navigazione crea diritto molto più di una norma del Codice Civile. Una scienza economica in questo senso si poteva dichiarare perfetta. Non si ha bisogno né di regole di diritto, né di Stati, né di Enti. Le regole si stabiliscono autonomamente con le categorie economiche che le producono. Questa è l’illusione della scienza economica perfetta.

La scienza economica perfetta si basa sul principio dell’assoluta razionalità della scelta economica, perché le leggi della domanda e dell’offerta non sono regolate dalla mera volontà ma rispondono ad una mano invisibile, come avrebbe detto Adam Smith, che regola l’abbondanza della domanda e dell’offerta in modo che si crei un equilibrio.  Questa opzione razionale è invece entrata in crisi. Il premio nobel per l’economia, la Prof.ssa Ostrom, sostiene che la scienza economica non è perfetta perché non può essere basata sull’assoluta razionalità delle scelte fondamentali, ma anzi deve tener conto di altri aspetti di gradimento, di scelta giusta, dell’esito finale.

La globalizzazione non appare più garantire questo destino inevitabile e inevitabilmente benefico che il liberismo aveva annunciato. Il liberismo aveva promesso di produrre tante merci da poter soddisfare ogni esigenza di carattere economico. Ciò non è avvenuto, perché la ricchezza pur di produrre ulteriore ricchezza si dirige non su un terreno di produzione di beni, ma di prodotti finanziari.

Pensando alla crisi alimentare che fa da contrappunto all’arricchimento economico, si mette in discussione anche un altro principio. Un grande economista Joseph Schumpeter, nel 1942, espose la tesi che la libertà politica accompagna sempre la libertà economica. Nei 50 anni successivi alla pubblicazione del libro di Schumpeter: “Capitalismo, liberalismo, socialismo”, man mano che cresceva il livello di vita di una nazione, la ricchezza di una maggiore democrazia era sempre più evidente. Questo è stato riproposto negli anni ’90 a proposito della democratizzazione dei Paesi dell’Est, in seguito alla caduta del muro di Berlino. Il fallimento dei Paesi dell’Est e lo spostamento di quelle popolazioni verso l’Europa più ricca di possibilità è avvenuto perché la carenza di libertà economica si sposava con la carenza di libertà politica. Una volta aperto il Patto di Pandora, inteso come limiti dittatoriali imposti, non essendoci alla libertà politica nuova una corrispondenza della libertà economica, questo patto si è frantumato. Dopo 20 anni dalla caduta del muro di Berlino e delle sue conseguenze, si scopre invece che questa equazione rassicurante fra liberalizzazione dei mercati e democrazia rappresentativa non può essere mantenuta allo stesso modo. L’aumento della liberalizzazione dei mercati non corrisponde necessariamente all’aumento della democrazia rappresentativa. Del resto i capi di questi giorni, dimostrano che la globalizzazione è un processo inevitabile, tuttavia è un effetto che non riguarda soltanto il ciclo economico ma anche quello politico. Se ingenti masse si spostano su questo terreno unificato mondialmente dell’economia, è evidente che si creano delle distonie rispetto al godimento dei diritti. O si regola questo passaggio economico, oppure il rischio è che vinca soltanto la legge del più forte, la legge della convenienza. Una società è civile, quando dà delle regole e prima di tutto le rispetta. Ciò significa che l’orizzonte della democrazia, per la prima volta nella storia, non è più separabile dall’economia. L’intuizione di Schumpeter secondo cui la libertà politica è proporzionata alla libertà economica, ha ricevuto una smentita. Non è vero che laddove si assiste ad un allargamento della libertà economica, giunge anche la libertà politica e viceversa. La posizione schumpeteriana è vera nel senso che c’è una percezione in base alla quale la democrazia non può più essere soltanto formale.

Nel contratto sociale del 1760, Rousseau, parlando degli inglesi, che ancora oggi definiamo la più antica democrazia, afferma che questi si illudono che la libertà sia nel voto, fanno un uso della libertà che meriterebbero di perdere. Il problema è che la democrazia è tale quando si ha anche una democrazia di tipo economico. Basta guardare la costituzione repubblicana, dagli artt. 41-46, che delineano l’immagine di una democrazia compiuta, non più formale ma sostanziale, cioè una democrazia che è tale non quando dichiara che tutti sono eguali e poi restano diseguali. Come recita l’art. 3 della nostra Costituzione, è compito della Repubblica rimuovere tutti gli ostacoli di ordine economico – sociale che compromettono l’uguaglianza.

Basta sfogliare un giornale per vedere che la vita economica domina oggi la vita sociale. I problemi economici non riguardano soltanto la quotidianità delle famiglie, ma addirittura complessivamente la vita collettiva delle nazioni. Si presta molta attenzione alle avventure delle imprese, le fusioni, le privatizzazioni, ecc. Questo perché è difficile stabilire regole giuridiche di carattere mondiale. Per arrivare alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948, ci vollero 7 anni, dal 1941 al 1948. La guerra mondiale aiutava molto a far capire alla gente che era necessario stabilire delle regole. Adesso siamo in presenza di un altro conflitto bellico, di carattere diverso che strema intere nazioni, che porta alla disperazione intere popolazioni, ma non c’è una volontà di stabilire una fonte fattizia del diritto internazionale. Cosa può dare la possibilità di stabilire delle regole in cui venga riaffermata la dignità della persona, essendo la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo un grande risultato che però con difficoltà di fronte alla globalizzazione può stabilire un principio di proporzione e di equilibrio? L’incentivo economico ai più forti è maggiormente significativo rispetto alla regola che può venire dalla norma giuridica della Dichiarazione. Il problema, invece, è quello di scoprire se esiste un altro tipo di regola in grado di affermarsi. C’è una corrente economica che va in questa direzione. In Italia per esempio questa discussione è stata introdotta da Stefano Zamanni, il quale afferma che se si prendono in considerazione gli indicatori produttivi delle società prive di etica, in cui la globalizzazione ha reso possibile le più grandi sproporzioni nelle azioni economiche e quindi anche fenomeni distorsivi di aggressione economica, si denota che queste società col tempo vedono diminuire la loro capacità incidenza. Lasciandosi andare al puro liberismo, il più forte rischia di sopprimere il più debole. Si potrebbe dire che il più forte approfittando del più debole distrugge la società economica in grado di consumare e di produrre quella ricchezza delle nazioni che deve coincidere con il benessere delle nazioni.

In altri termini, se analizziamo i fattori della produzione: lavoratori oppressi, tentativi di imporre prodotti inutili al benessere collettivo, nell’immediato c’è un ampio guadagno, ma nel lungo termine, c’è un declino della complessiva società economica. Tutto ciò è da includere sotto il termine di responsabilità sociale di impresa. Questo problema non deve essere scambiato, però, come una pura strategia di marketing, come è avvenuto negli ultimi tempi. La responsabilità sociale d’impresa non significa destinare una parte dei propri proventi ad opere buone, ma a far sì che i destinatari delle opere buone non soffrano dello sfruttamento. Per responsabilità sociale d’impresa, quindi, si intende il coinvolgimento di tutti gli stakeholders, quei soggetti esterni all’azienda e al management che concorrono al benessere complessivo della società in cui l’impresa opera. Il rispetto reciproco degli stakeholders, cioè il governo societario dell’attività economica diventa benessere civile.

Trattando il tema del riconoscimento della legittimità morale del profitto capitalistico, il Prof. Acocella si chiede: E’ legittimo che ci sia il guadagno? La giustificazione del liberismo globalizzato è la seguente: solo l’ansia di acquisizione, come l’avrebbe chiamata Werner Sombart, giustifica il progresso economico. La legittimità morale del guadagno è un elemento inderogabile e imprescindibile del ciclo economico. Ma il profitto è il solo criterio di riferimento oppure la dignità della persone, tanto più eterea e meno concreta, non è invece un elemento tecnicamente necessario? In qualche modo, il principio tecnico rispetto all’economia ha il valore di una sentinella. Come la sentinella non fronteggia l’esercito straniero, ma per tempo avverte che sta arrivando il nemico, così il principio etico è la sentinella che chiama tutti a stare più attenti, persino l’esercito nemico. Il principio etico, quindi, è una sentinella che richiama a vigilare sulle insidie, anche quelle che non si vedono subito, perché il fluire del processo economico può favorire l’umanità ma può anche minacciarne le sorti. Ovviamente, non bisogna mai cadere nell’errore di credere che sia meglio tornare indietro. Secondo il Prof. Acocella, il progresso economico non deve essere guardato con sospetto, se crea miglioramenti.

Se vogliamo avere dei beni in più, dobbiamo sapere qual è il costo umano che ciò comporta e la dignità della persona, pertanto, diventa un criterio etico significativo.

La finalità sociale dell’economia, disegnata dalla nostra Costituzione, è un tema centrale dell’economia moderna. Nel dibattito sull’economia moderna, si è accesa una disputa tra diversi orientamenti. Il prof. Acocella sottolinea soltanto un esempio degli eccessi del rapporto dell’economia con il capitale finanziario. Esiste un sistema in cui per aver stabilito una corrispondenza tra diminuzione del numero di lavoratori addetti ad una certa produzione e valore dell’unità di prodotto che viene immesso sul mercato, si è verificato, in particolare nelle borse più grandi del mondo, che se l’azienda annuncia soltanto di licenziare un terzo dei suoi lavoratori il suo titolo cresce. Questo perché la borsa è sensibile al fatto che se si riesce a produrre la stessa quantità di merce con un terzo di lavoratori in meno, il valore del prodotto sale. Ciò ha indotto parecchie aziende a licenziare un numero sempre più elevato di lavoratori. Al riguardo, il Prof. Acocella afferma che il problema del capitale finanziario è serio perché se si stabilisce una corrispondenza tra aumento del valore finanziario di un’attività imprenditoriale e un’organizzazione che può danneggiare la dignità della persona, se si fa prevalere soltanto il criterio del guadagno senza compensarlo, senza equilibrarlo con il rispetto per chi lavora, sparisce il valore del lavoro. Mentre l’economia si fonda su due valori: quello del lavoro e quello del guadagno. Nel caso su menzionato, ne sparisce uno, quello del lavoro.

Avviandosi a conclusione, il Prof. Acocella precisa che la globalizzazione doveva avere un duplice effetto, cioè coinvolgere strati e popolazioni sempre nuovi e nel processo produttivo e nel processo di consumo. Ciò avrebbe favorito un aumento occupazionale, che a sua volta si sarebbe tradotto in maggiori produzioni, maggiori guadagni, quindi, maggiori consumi e circolazione di un’alta percentuale di ricchezza in grado di accrescere il benessere della nazione. Purtroppo è accaduto che la crisi ha portato una grave sperequazione, cioè  i soggetti più deboli del sistema hanno impattato nella crisi e altri soggetti, invece, se ne sono avvantaggiati. Si pensi che i grandi Stati hanno sorretto i sistemi bancari per difendere i risparmiatori medi. L’esito è stato che gli aiuti statali hanno rafforzato il sistema bancario ma hanno fatto aumentare i profitti di pochi. E’ stata sottratta un’altra quota alla collettività perché venga intascata soltanto da pochi.

In ultimo, il Prof. Acocella considera che uno degli effetti della crisi è stato farci scoprire che qualche volta c’è un’eccessiva propensione al consumo. Gli indicatori dicono che c’è un problema etico quando si crea l’illusione che si produca ricchezza bastevole per ogni cosa e che questa ricchezza, anche se rappresentata dalla massa dei prodotti finanziari, è tale da mettere le famiglie nella possibilità di osare qualunque cosa. Questa propensione al consumo, che non è proporzionata alle possibilità, ma è sproporzionata, viene incentivata dal fatto che per far circolare più danaro e fare più prodotti finanziari, si creano condizioni sperando che il volume degli affari continui ad essere tale per cui sarà restituito quello che si è prestato. Quando questo castello di carta non regge più, perché c’è il primo inadempiente, la catena diventa inarrestabile. L’illimitata sostenibilità del debito ha anche un altro effetto, se si indirizza gran parte della capacità finanziaria di una nazione verso il consumo o verso l’investimento in immobili, si sottrae danaro agli investimenti, quindi, non si dà la possibilità per es. di produrre occupazione. Invitare al consumo significa sottrarre ricchezza alla capacità di investimento sul futuro dei giovani. Tutto ciò non è materia delle istituzioni pubbliche, perché bisogna rispettare la libertà di scelta di ciascuno. Il compenso sta nell’educazione etica. Al riguardo, il Prof. Acocella ricorda due episodi a cui si sente molto legato: la pagina di un vecchio prete, in cui era scritto “Sta attento tu, giovane studente, perché l’aperitivo che adesso ti compiaci di bere, è un pasto sottratto a un bambino dell’India”; la pagina di una lettera di Carlo Carretto, il quale scriveva “Amo la coperta che mi protegge dal freddo della notte, perché mi porta calore e mi protegge. Non ho nemmeno guardato se sia bella. Non me la sono procurata per poterla vantare e vedere se sia bella, la amo perché mi protegge, mi fa calore.” Questo dovrebbe essere il rapporto con il consumo di ciascuno, ciò che mi serve veramente per essere me stesso. Occuparsi del profilo etico non è dovere di una democrazia. E’ dovere di una democrazia avvertita produrre norme, fornire indirizzi, stabilire regole  che ostacolino una speculazione, una speculazione che talvolta i cittadini non intravedono negli atti che stanno compiendo, perché considerano queste proposte allettanti. Quando le conseguenze di un atteggiamento irresponsabile vengono addossate alla comunità, non è l’intera comunità che ne paga i costi, bensì i più deboli. Se la sovranità si pone il problema più rilevante del nostro tempo, intervenire nel consolidare dei principi etici significa scommettere sulla possibilità che queste regole non siano dettate dai più forti e nell’interesse generale significa scommettere sulla possibilità di avere un’economia di breve termine ma che guardi al benessere delle nazioni.

Agata Abbamondi

Patrizia Lombardi

Ada Mancinelli

Dignità della persona, profili economici – Prof. Giuseppe Acocella

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